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Tesi di specializzazione II

 
  Università degli studi di Roma “Tor Vergata”
Facoltà di Medicina e Chirurgia


Scuola di Specializzazione in Diagnostica per Immagini, Imaging Molecolare, Radiologia Interventistica e Radioterapia
Direttore: Prof. Giovanni Simonetti


Tesi di Specializzazione

RICANALIZZAZIONE DELLE ARTERIE NATIVE NEL FALLIMENTO DEI BYPASS INFRAINGUINALI


Specializzando:
Dr. Roberto Chiappa

Relatore:
Chiar.mo Prof. Giovanni Simonetti

Anno Accademico 2007 - 2008

 


INTRODUZIONE

Nonostante i continui progressi delle tecniche chirurgiche vascolari abbiano consentito un incremento dei ratei di pervietà dei bypass infrainguinali, la trombosi dei bypass femoro poplitei e femoro tibiali rimane ancora oggi un evento di difficile gestione. Fallimenti precoci dei bypass protesici (entro 30 gg dalla chirurgia) sono stati riportati con frequenza variabile tra il 5% ed il 20% dei casi (1,2), mentre per i bypass in vena sono descritti fallimenti tardivi (oltre 30 gg dalla chirurgia) con frequenza variabile tra il 20% ed il 50% dei casi a 5 anni dall’intervento (3-5). Il fallimento dei bypass infrainguinali solitamente esita in una recrudescenza dei sintomi ischemici che puo variare dalla claudicatio all’ischemia critica acuta o cronica con rischio di perdita dell’arto. Reports recenti indicano che nel 10% dei casi il fallimento di un bypass infrainguinale esita in una amputazione maggiore (6); l’incidenza elevata e le conseguenze severe che tale evento comporta per i pazienti impone un approccio aggressivo e possibilmente efficace. Le opzioni terapeutiche fino ad ora disponibili hanno offerto risultati insoddisfacenti. Le possibilità di ripristinare durevolmente il flusso mediante tromboembolectomia meccanica o terapia fibrinolitica in un bypass infrainguinale trombizzato sia protesico che in vena, sono scarse (7-13). La sostituzione del bypass appare pertanto il miglior trattamento possibile seppure ancora gravato da morbilità non trascurabile e ratei di pervietà sensibilmente inferiori alla ricostruzione primaria (da 37% a 57% di pervietà a 5 anni) (8, 14-17).


SCOPO DEL LAVORO

Sebbene il ruolo dell’approccio endovascolare nella gestione del bypass “a rischio” (failing graft) sia stato già ben documentato, sono stati descritti solo pochi casi, perlopiù aneddotici, di ricanalizzazione endoluminale dell’arteria nativa dopo fallimento di un bypass. I considerevoli progressi ottenuti dalla tecnica endovascolare con la disponibilità di strumenti dedicati sempre più raffinati consentono infatti un approccio endovascolare a lesioni arteriose precedentemente destinate al solo trattamento chirurgico. Lo scopo dello studio è quello di dimostrare il possibile ruolo dell’approccio endovascolare alle lesioni delle arterie native nei casi di trombosi dei bypass infrainguinali e mostrarne i risultati in termini di regressione dei sintomi e salvataggio d’arto.


MATERIALI E METODI

Disegno dello studio

Lo studio prevede l’analisi retrospettiva di 24 pazienti sottoposti a tentativo di ricanalizzazione endoluminale del tratto arterioso femoro popliteo e sottogenicolare a seguito di trombosi acuta o cronica di preesistente bypass infrainguinale esitata in ischemia critica con rischio di perdita d’arto. I risultati in termini di successo tecnico primario, successo clinico immediato e tasso di salvataggio d’arto sono confrontati con un’analoga coorte di pazienti sottoposti al solo trattamento chirurgico vascolare (tromboembolectomia ± fibrinolisi, sostituzione del bypass). I dati necessari alla compilazione di tale analisi sono stati desunti separatamente per il gruppo endovascolare e chirurgico rispettivamente dai database del Dipartimento di diagnostica per immagini, imaging molecolare, radiologia interventistica e radioterapia dell’Università Tor Vergata e dell’U.O.C. di Chirurgia Vascolare del Policlinico Casilino. Tutti i pazienti sottoposti a trattamento endoluminale erano stati considerati non eligibili a chirurgia per la mancanza di un adeguato condotto venoso autologo, l’assenza di un sufficiente runoff distale, la presenza di severe comorbidità quali recente infarto miocardio acuto, angina instabile, brocopneumopatia ostruttiva di grado severo. Si è sempre proceduto a misurazione pre e post-procedurale dell’indice caviglia-braccio (ABI) e della tensione transcutanea di O2 (tc-PO2) per valutare il miglioramento in termini emodinamici e di perfusione tissutale. In tutti i casi i pazienti sono stati studiati con esame Ecocolordoppler integrato da Angiografia in Risonanza Magnetica (Angio-RMN) con protocollo MIP rotazionale o Tomografia Computerizzata Volumetrica per la localizzazione precisa delle lesioni e la scelta della strategia terapeutica più appropriata. Le lesioni ulcerative sono state documentate fotograficamente immediatamente prima del trattamento e successivamente a distanza di 3 e 6 mesi.

Popolazione

Basandoci sui criteri sopradescritti, abbiamo preso in considerazione 24 pazienti in cui è stata tentata una rivascolarizzazione endoluminale nel periodo che va da Gennaio 2004 a Settembre 2007 (16 uomini, 8 donne; età media 72,5 anni, range 46-87), analogamente abbiamo analizzato il decorso clinico di un numero comparabile di pazienti sottoposti nello stesso periodo a trattamento chirurgico (15 uomini, 6 donne; età media 69 anni, range 52-81). 
Nel gruppo endovascolare 4 pazienti (16%) presentavano un’occlusione acuta del bypass mentre tale percentuale è sensibilmente superiore nel gruppo chirurgo (28,6%). Simile è la distribuzione del sito di anastomosi distale del bypass occluso (sottoarticolare nel 79% e 81% rispettivamente nel gruppo endovascolare e chirurgico). In tutti i casi di occlusione acuta si trattava di bypass sottoarticolari
 
Trattamento

• Gruppo endovascolare
La strategia terapeutica è stata differente nei casi di occlusione acuta o cronica del preesistente bypass. Nei quattro pazienti con occlusione acuta del bypass è stata tentata in prima istanza una lisi farmacologica catetere diretta del trombo (infusione di Urokinasi @ 500 IU/kg/h preceduta da bolo di 200.000 UI) e si è ricorso alla ricanalizzazione delle arterie native solo nel caso di fallimento della fibrinolisi . Nei pazienti con ischemia cronica da fallimento del bypass si è direttamente proceduto alla ricanalizzazione endoluminale del tratto arterioso nativo. A tutti i pazienti è stata somministrata una doppia terapia antiaggregante piastrinica a base di ticlopidina 250 mg/die e acido acetilsalicilico 100 mg/die (a partire da 3 giorni precedenti la procedura nei casi fallimento cronico del bypass). La “doppia antiaggregazione” è stata prolungata per 6 settimane dopo la procedura e l’acido acetilsalicilico è stato prescritto “quoad vitam”. La procedura endovascolare è stata eseguita in una “suite” angiografica dedicata; uno studio arteriografico preprocedurale ha consentito di quantificare l’estensione della patologia ed è stato seguito dalla somministrazione e.v. di Eparina Sodica 50 IU/kg. Si è sempre utilizzato un approccio femorale anterogrado utilizzando introduttori con misure variabili da 4F a 6F. Nei casi di arterie femorali superficiali e poplitee occluse una guida angolata .035 idrofilica (Terumo) è stata utilizzata per creare intenzionalmente una via sottointimale. Occasionalmente è stata necessaria un’angioplastica della prima porzione dell’occlusione con pallone da 3mm di diametro per consentire il passaggio del tratto rimanente. Si è ricorso all’utilizzo di stent nel tratto femorale superficiale solo nel caso di dissezioni con limitazione di flusso o “elastic recoil” severo. Guide .014 di uso coronarico (Choice Extra Support, PT-Graphix Super Support, Pilot 200) sono state utilizzate per superare intraluminalmente le occlusioni sotto poplitee; in casi limitati una guida rigida angolata .035 idrofilica ed un catetere 4F vertebrale (Terumo) sono stati utilizzati per creare una via sottointimale intenzionale. Superati i tratti occlusi un esame agiografico confermava il rientro distale in sede intraluminale considerato ottimale se avvenuto nel tratto arterioso prescelto senza compromissione di rami collaterali significativi. Per l’angioplastica sono stati utilizzati palloni del diametro di 4/6 mm nelle arterie poplitee e femorali superficiali e palloni a basso profilo del diametro da 2 a 3 mm e lunghezza fino a 150mm (Invatec, Amphyrion Deep) nei vasi tibiali. Il tempo di gonfiaggio del pallone variava da 15 a 60 secondi con pressione di 8/14 atmosfere. Il successo tecnico è stato definito come recupero di almeno il 50% del lume originale con assenza di rallentamento del mezzo di contrasto nei segmenti trattati. L’incremento dell’indice caviglia-braccio è stato considerato la prova del miglioramento emodinamico. Il successo clinico è stato definito la scomparsa del dolore a riposo, la guarigione dell’ulcera, il non dover ricorrere ad una amputazione maggiore, l’incremento della tensione transcutanea di O2 oltre i 50 mmHg. Il follow-up post procedurale consistente in una valutazione ecocolordoppler, ossimetria transcutanea ed esame clinico è stato effettuato a 1, 3, 6 mesi e quindi semestralmente.

•Gruppo chirurgico
Anche nel gruppo chirurgico la strategia terapeutica è stata adattata al quadro di presentazione, acuto o cronico dell’ischemia. Nei sei casi di trombosi acuta del bypass si è tentato un approccio conservativo mediante tromboembolectomia con cateteri dedicati (Fogarty Adherent Clot Catheter e Fogarty Graft Thrombectomy Catheter, Edwards Lifesciences) associata a terapia fibrinolitica loco-regionale. Nei 3 casi ricanalizzati con successo si è resa necessaria la correzione chirurgica mirata di stenosi residue, perlopiù nei siti delle anastomosi (difetti tecnici iniziali o iperplasia miointimale), visibili dopo il ripristino della pervietà del bypass. Nei casi di fallimento dell’approccio conservativo ed in tutti i casi di occlusione cronica si è ricorso al confezionamento di un nuovo bypass. La scelta del materiale protesico è stata obbligatoriamente a favore di materiale venoso autologo, preferibilmente safena interna, con tecnica “in situ” o “ex situ” previa devalvulazione. L’accesso ai vasi nei limiti del possibile è stato condotto attraverso incisioni “non convenzionali” cercando di evitare le lesioni cicatriziali dei precedenti interventi chirurgici. In tutti i casi per l’anastomosi distale è stato scelto un segmento arterioso più distale rispetto a quello del bypass primitivo. Il successo tecnico iniziale è stato accertato con esame arteriografico intraoperatorio ed è sempre stato confermato dall’incremento dell’indice caviglia-braccio. Il successo clinico, similmente ai pazienti sottoposti a trattamento endoluminale, è stato definito come scomparsa del dolore a riposo, guarigione delle lesioni trofiche senza il ricorso ad amputazioni maggiori, un ossimetria transcutanea ≥ 50 mmHg. Il follow up è stato condotto con la stessa metodologia e cronologia del gruppo endovascolare.

Risultati

• Gruppo endovascolare
Dal mese di gennaio 2004 al mese di settembre 2007 è stata tentata la rivascolarizzazione di tratti arteriosi nativi in 24 pazienti. In tutti i casi di occlusione acuta del preesistente bypass (4 casi) l’approccio fibrinolitico è stato considerato insoddisfacente. 

Due pazienti sono stati persi al follow-up la cui durata media è stata di 30 mesi.
Il successo tecnico è stato ottenuto in 21 (87%) dei 24 pazienti. La tecnica sottointimale intenzionale è stata sempre utilizzata nel tratto femorale superficiale e nel 74% dei casi nei segmenti sottoarticolari (20/27). La lunghezza media delle lesioni trattate è stata di 20,3 cm (range 12-45). In 7 casi (29%) è stato necessario il rilascio di stent. Due insuccessi tecnici sono stati causati dall’interruzione chirurgica dell’arteria femorale superficiale durante la procedura di bypass, entrambi i pazienti sono stati sottoposti a nuovo bypass ma non sono inseriti nel gruppo chirurgico di questo lavoro; il terzo insuccesso tecnico è stato casato dall’assenza di un circolo “di accoglienza” a livello del piede (arteria plantare e/o dorsale) ed è esitato in amputazione. In due casi dopo ricanalizzazione e dilatazione del tratto ostruito si è verificata un’occlusione embolica distale; entrambi i casi sono stati risolti con tromboaspirazione mediante un catetere guida da 6F. In tutti i casi di successo tecnico iniziale è seguito un miglioramento clinico con regressione della sintomatologia dolorosa e/o guarigione dell’ulcera, incremento dell’indice caviglia-braccio e della tensione transcutanea di ossigeno. Durante il follow-up abbiamo riscontrato l’occlusione acuta di uno stent popliteo risolta con ricanalizzazione e re-stenting e quattro restenosi in sede femorale superficiale trattate con successo con una nuova angioplastica. In cinque casi si è ripresentata un’occlusione cronica dell’intero tratto femoro popliteo cui è seguito un peggioramento clinico esitato in due amputazioni dell’arto; gli altri tre casi sono stati gestiti con successo mediante terapia medica (2 arti) e nuova ricanalizzazione endoluminale (1 arto). Due pazienti sono morti per infarto del miocardio. La pervietà primaria assistita calcolata mediante tavole di sopravvivenza di Kaplan-Meyer è stata dell’86%, 71% e 57% rispettivamente a 12/24, 36 e 48 mesi.
  La pervietà secondaria calcolata negli stessi intervalli di tempo mediante tavole di sopravvivenza di Kaplan-Meyer è stata dell’90%, 82% e 66% .
 Il tasso di salvataggio d’arto calcolato con lo stesso criterio si avvicina all’80% a 48 mesi.
 
• Gruppo chirurgico
Dal mese di gennaio 2004 al mese di luglio 2007 sono giunti all’osservazione chirurgica 21 pazienti per l’occlusione di un pregresso bypass infrainguinale. L’approccio conservativo è risultato soddisfacente in soli 3 dei 6 casi di occlusione acuta ed in questi sono state necessarie manovre chirurgiche aggiuntive (endoarterectomia + patch) per la correzione di difetti residui. Complessivamente sono stati tentati 18 bypass secondari infragenicolari in vena safena autologa e 3 tromboembolectomie/revisioni chirurgiche delle protesi. Nessun paziente è stato perso al follow-up medio di 26 mesi. Il successo tecnico iniziale è stato ottenuto in 16 (76%) dei 21 pazienti complessivi; 5 bypass non sono stati condotti a termine per la scarsa qualità del materiale venoso autologo a disposizione (3 casi in cui era necessario il confezionamento dell’anastomosi distale a livello della caviglia) o per l’assenza di adeguati vasi di run-off (2 casi); tutti questi pazienti sono andati incontro ad amputazione dell’arto ischemico. Anche nel gruppo chirurgico il successo tecnico iniziale è stato seguito da un evidente miglioramento clinico con regressione della sintomatologia dolorosa e/o guarigione dell’ulcera, incremento dell’indice caviglia-braccio e della tensione transcutanea di ossigeno.
Durante il follow-up si è verificata la re-occlusione acuta di una protesi precedentemente sottoposta a troboembolectomia ed in questo caso si è potuto risolvere il quadro ischemico confezionando un nuovo bypass in vena; altri tre quadri ischemici acuti hanno seguito l’occlusione del bypass secondario e sono tutti esitati in amputazione dell’arto. In un solo caso l’occlusione del bypass secondario ha generato un quadro di ischemia cronica attualmente gestito con terapia medica. Due stenosi anastomotiche di bypass secondari (failing graft) sono state depistate per un deterioramento delle condizioni cliniche a bypass pulsante e sono state risolte con angioplastica percutanea (cutting balloon, Fig.4). Un paziente è morto per ictus cerebrale.
La pervietà primaria assistita calcolata mediante tavole di sopravvivenza di Kaplan-Meyer è stata dell’80%, 73% e 48% rispettivamente a 12, 24/36 e 48 mesi.
  La pervietà secondaria calcolata negli stessi intervalli di tempo mediante tavole di sopravvivenza di Kaplan-Meyer è stata dell’86%, 78%, 78% e 52% .
Il tasso di salvataggio d’arto calcolato con lo stesso criterio è poco più del 50% a 48 mesi.
 

DISCUSSIONE

Il fallimento di un bypass infrainguinale, rappresenta una importante sfida per il chirurgo vascolare. La gestione corretta di ogni singolo paziente può variare sulla base di alcune fondamentali considerazioni. Di primaria importanza sono lo stato generale del paziente e le condizioni dell’arto interessato. Un numero significativo di pazienti dopo trombosi di bypass apparirà ben compensato con una disabilità moderata e non necessiterà reinterventi. Similmente, pazienti in cui lo stato clinico generale è compromesso al punto di non poter considerare realistica la possibilità di una deambulazione attiva possono beneficiare della semplice osservazione clinica. Comunque la maggioranza dei pazienti operati in origine per una ischemia severa subirà una recrudescenza, semmai con peggioramento, dei sintomi presenti al momento della chiusura del bypass e necessiterà un reintervento. Sfortunatamente il ripristino di una pervietà durevole in un bypass infrainguinale trombizzato è generalmente difficile da ottenere. Riportando dati desunti dalla letteratura la tromboembolectomia associata a revisione chirurgica di un condotto venoso produce risultati di pervietà che variano dal 19% al 28% a 5 anni (7,8); ancora più scoraggianti sono i dati riguardanti i condotti protesici (ePTFE) con valori che si attestano al 32% a 30 mesi e 11% a 5 anni (9,10). Anche la trombolisi più revisione chirurgica conduce a risultati di pervietà a distanza del tutto deludenti, non superiori al 37% a 3 anni sia per condotti venosi che protesici (11-13). Nella maggioranza delle esperienze pubblicate il trattamento fibrinolitico e la tromboembolectomia dei bypass occlusi rappresentano una misura temporanea che necessita una continua serie di reinterventi per il mantenimento della pervietà. Si ritiene quindi comunemente che la maggior parte di pazienti con ostruzione di un bypass ed ischemia severa ricorrente debbano essere trattati con il confezionamento di un nuovo bypass. I trattamenti conservativi succitati sono generalmente riservati a casi selezionati sulla base del tempo trascorso dall’occlusione, le condizioni del condotto originale, e la completa assenza di vene autologhe, incluse quelle ectopiche (18). Considerato che la sostituzione del bypass trombizzato viene unanimamente ritenuta la migliore forma di rivascolarizzazione nei casi di ischemia severa d’arto, visti i risultati storicamente inferiori dei bypass secondari rispetto ai primitivi abbiamo intrapreso questa revisione per determinare la strategia migliore ed i risultati dell’approccio endovascolare alle arterie native occluse. All’inizio della nostra esperienza il tentativo di ricanalizzazione delle arterie native è stato introdotto come metodo alternativo all’amputazione in soggetti selezionati, non eligibili a trattamento chirurgico; ipotizzavamo infatti che il trattamento endovascolare potesse fornire buoni risultati in termini di salvataggio d’arto con minore morbilità e mortalità rispetto all’amputazione di principio. Solo esperienze aneddotiche sono state riportate in precedenza in letteratura come quella di Nasim A. che ha descritto due casi di ricanalizzazione di arterie native con pervietà che hanno raggiunto rispettivamente gli 11 e 18 mesi. Il nostro tasso di successo tecnico e clinico è stato prossimo al 90% ed un’analisi approfondita ha svelato che la maggior parte dei fallimenti erano imputabili all’interruzione chirurgica dell’arteria femorale superficiale effettuata nel corso del primitivo bypass. L’entusiasmo di tali risultati ci ha spinto a riconsiderare in qualche modo il ruolo dell’approccio endovascolare alle arterie native nei casi di fallimento di preesistente bypass ed abbiamo voluto confrontare la nostra esperienza con quella di un analogo gruppo di pazienti sottoposti a trattamento chirurgico convenzionale. Il primo dato significativo che emerge dal confronto e che in qualche modo ci ha sorpreso è il miglior tasso di successo tecnico nel gruppo endovascolare (87% vs 76%) soprattutto considerando che si trattava di pazienti in cui originariamente, all’epoca del trattamento chirurgico, era stata considerata non proponibile la ricanalizzazione delle arterie ostruite; La nostra opinione è che i progressi ottenuti dalla tecnologia dei materiali unitamente all’accresciuta esperienza degli operatori consenta il trattamento di lesioni arteriose precedentemente considerate non adatte all’approccio endovascolare. E’ evidente in tale senso la necessità di una revisione dei criteri TASC che anche nella seconda edizione del 2007 (TASC II) considerano le ostruzioni complete del tratto femorale superficiale di esclusiva pertinenza chirurgica. Proseguendo nel confronto abbiamo notato che anche nel breve e medio termine il gruppo endovascolare ha prodotto risultati di pervietà primaria assistita sorprendentemente in linea, se non migliori, di quelli del gruppo chirurgico.
Il divario fra gruppo endovascolare e chirurgico appare via via sempre più netto in favore del primo quando si prendono in considerazione i risultati di pervietà secondaria e salvataggio d’arto.
La soluzione chirurgica dopo fallimento di un bypass infrainguinale rappresenta infatti quasi sempre una “via senza ritorno” oltre la quale vi è poco spazio per reinterventi; il fallimento di un bypass secondario confezionato per ischemia critica consente raramente soluzioni alternative all’amputazione dell’arto. Al contrario l’approccio endovascolare è quasi sempre ripetibile, spesso con risultati sovrapponibili al trattamento primitivo e la conservazione dei normali circoli collaterali di supplenza consente talora il salvataggio di un arto anche dopo la trombosi del tratto ricanalizzato. Non è possibile esprimere confronti in termini di morbilità mortalità per l’esiguo numero di eventi registrati in entrambi i gruppi.


CONCLUSIONI

La nostra esperienza dimostra la fattibilità della ricanalizzazione endovascolare delle arterie native nel caso di ischemia severa, acuta o cronica causata da fallimento di un pregresso bypass. La terapia percutanea sempre più aggressiva nei confronti delle lesioni arteriose ostruttive consentita dalla maggiore abilità degli operatori e soprattutto dallo sviluppo della tecnica subintimale può essere ora estesa ad includere gruppi di pazienti con fallimento di bypass e lesioni delle arterie native precedentemente giudicate inidonee al trattamento endovasolare. Tutto ciò contraddice i criteri TASC che anche nella seconda stesura indicano la chirurgia come unica forma di trattamento delle lesioni ostruttive lunghe dell’arteria femorale superficiale; tali criteri meritano evidentemente una rivisitazione che tenga conto dei progressi della terapia endovascolare. L’appropriatezza dell’approccio endoluminale alle arterie native nel caso di fallimento di bypass è confermata dai buoni risultati in termini di pervietà arteriosa a breve e medio termine; la scarsa invasività, la ripetibilità e la preservazione dei circoli collaterali rendono ragione di tassi di salvataggio d’arto perfino superiori a quelli ottenuti dalla chirurgia.


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