UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI ROMA "LA SAPIENZA"
FACOLTA' DI MEDICINA E CHIRURGIA
ISTITUTO DI III CLINICA CHIRURGICA Dir. Prof. GIORGIO DI MATTEO
TESI SPERIMENTALE DI LAUREA
LA MALATTIA ATEROSCLEROTICA DELLA ARTERIA FEMORALE SUPERFICIALE. ATTUALI ORIENTAMENTI TERAPEUTICI
RELATORE: Chiar.mo Prof. G. Di Matteo
LAUREANDO: Roberto Chiappa
C 63143
ANNO ACCADEMICO 1992/93
(Tesi elaborata con la collaborazione del Dott. Bruno Salvati)
SOMMARIO
Introduzione
Storia naturale delle lesioni della arteria femorale superficiale
Strategie terapeutiche
Materiali e metodi
Risultati
Discussione
Conclusioni
Bibliografia
INTRODUZIONE
La malattia aterosclerotica si presenta per lo più con i caratteri di una malattia sistemica che colpisce, contemporaneamente o in successione, distretti arteriosi diversi.
Non è infrequente però osservare lesioni aterosclerotiche limitate ad una arteria, addirittura ad una singola porzione di essa, e che si mantengono stabili anche per un lungo periodo di tempo (19,31). Questo è particolarmente vero in pazienti relativamente giovani con occlusione aterosclerotica della porzione distale dell'aorta addominale e della sua biforcazione, ma può anche essere visto in pazienti con occlusione della arteria femorale superficiale (AFS).
Contrariamente ai criteri anatomici, che fanno assumere all'AFS l'importanza di diretto collegamento tra il distretto iliaco e quello popliteo e quindi di fondamentale "garante" della perfusione dei vasi di gamba, è frequente il reperto clinico di pazienti asintomatici o scarsamente sintomatici anche in presenza di una estesa lesione steno- ostruttiva della AFS, quando si associa una arteria femorale profonda pervia(19,26). La AFS sembrerebbe così non avere un ruolo insostituibile nel provvedere alla irrorazione della porzione distale dell'arto, potendo essere a tal fine ben vicariata dall'arteria femorale profonda e dai suoi circoli. La funzione per così dire "ancillare" della AFS aveva ridotto l'interesse per il trattamento più o meno precoce della malattia aterosclerotica qualora questa interesssse isolatamente questo vaso
A distanza di quasi vent'anni da queste considerazioni il dibattito sull'opportunità e la validità di trattare lesioni steno-ostruttive dell'AFS sembra tornato d'attualità con la diffusione delle metodiche endoluminali.
STORIA NATURALE DELLE LESIONI DELLA ARTERIA FEMORALE SUPERFICIALE
Quando la malattia aterosclerotica colpisce l'arto inferiore, l'AFS è quasi invariabilmente interessata; frequentemente è la prima e non di rado tende a rimanere l'unica localizzazione per un discreto numero di anni. Le ragioni dell'interessamento quasi costante di questo vaso non sono state completamente chiarite. Il tratto più precocemente colpito è l'uscita del vaso dal canale di Hunter dove l'AFS con la vena satellite e il nervo safeno sono contornati da un complesso sistema muscolare.
Da questa considerazione è stata invocata una compressione estrinseca dell'arteria da parte del tendine del muscolo grande adduttore. Le pareti anteriori e laterali del canale sono costituite dalle fibre del vasto mediale, posteriormente dal muscolo grande e lungo adduttore. La spessa aponeurosi del vasto mediale costituisce la parete mediale. Il tendine del grande adduttore nel punto di sua fissazione al femore costituisce il limite distale del canale.
In soggetti con muscolatura ben sviluppata si può verificare una compressione sui vasi contenuti nel canale di Hunter con meccanismo a forbice tra il tendine del grande adduttore e le fibre del vasto mediale. Tale compressione può essere intermittente durante la marcia o la corsa e causare la trombosi più o meno estesa del segmento arterioso interessato ("sindrome del canale degli adduttori" di Palma 1951; "jogger sindrome" di Balaji e De Weese 1981).
La frequenza con la quale l'AFS è ostruita in maniera più o meno segmentaria nei soggetti aterosclerotici è suggestiva per ipotizzare che la costrizione fibromuscolare costituisca una importante concausa. Le lesioni parietali fibrotiche e l'iperplasia intimale dovute al traumatismo cronico del vaso possono provocare in fasi successive la stenosi o l'ostruzione. Tale meccanismo non è sempre dimostrabile e riesce difficile quantizzarne la rilevanza.
Le lesioni dell'AFS sono spesso asintomatiche quando si sviluppa un sistema collaterale formato dalla femorale profonda e dalle sue diramazioni, in grado di funzionare da bypass naturale. Tale aspetto funzionale compensatorio della arteria femorale profonda, in grado di assolvere al doppio compito di perfusione della coscia e di conduzione per il polpaccio ed il piede, è stato sottolineato da Waibel e Wolf (29) i quali rilevarono una significativa caduta pressoria del flusso misurato sull'arteria poplitea durante il temporaneo clampaggio della femorale profonda in pazienti con femorale superficiale occlusa.
Queste osservazioni hanno portato ad abbandonare l'intervento diretto di disostruzione della AFS anche considerando la naturale progressione della malattia aterosclerotica in questo vaso.
In un recente studio, Walsh (31) ha seguito la naturale evoluzione delle stenosi di 45 arterie femorali superficiali, tutte di grado tale da non richiedere un intervento immediato (17 asintomatiche, 28 con claudicatio moderata). Dopo un intervallo di 37 mesi, 33 di queste (72%) non hanno mostrato alcun cambiamento. La malattia aterosclerotica è progredita solo in 12 arterie femorali superficiali (28%) 7 delle quali (17%) si sono occluse. Il limitato numero di casi disponibili non ha permesso di definire una precisa correlazione tra fattori di rischio (fumo, ipertensione, età, sesso) e velocità di progressione delle stenosi;
tuttavia un dato appare piuttosto evidente, e cioè che in questo gruppo, la maggior parte delle lesioni scarsamente o per nulla sintomatiche, non hanno mostrato segni di progressione (a 37 mesi). Da questi dati l'autore conclude che la mancanza di progressione della malattia avrebbe reso inutile il trattamento precoce, anche se poco invasivo, di queste lesioni.
STRATEGIE TERAPEUTICHE
Le considerazioni sull'emodinamica della femorale profonda e sulla lenta evoluzione delle lesioni della AFS hanno contribuito negli anni settanta ad una progressiva riduzione degli interventi che miravano a ricanalizzare la femorale superficiale. La tromboendoarterectomia (TEA), introdotta nel 1947 da Dos Santos, aveva sollevato molte perplessità riguardo i risultati a distanza in termini di pervietà, così come controversa era l'indicazione al bypass femoro-popliteo, seppure al di sopra del ginocchio(26,28).
La terapia conservativa farmacologica e riabilitativa, con allontanamento dei fattori di rischio, (abolizione del fumo di sigaretta, perdita di peso, ecc.), fu quindi considerata il migliore approccio per i pazienti con claudicatio non serrata causata da steno- occlusione isolata della AFS e dunque classificabili come pazienti al II stadio di Fontaine (1).
Boyd (4) riporta in pazienti trattati conservativamente, un rischio d'amputazione solo del 8% a 5 anni e del 12% a 10 anni; Imparato (16) afferma che nel 75% dei pazienti con claudicatio la sintomatologia rimane stazionaria o addirittura regredisce spontaneamente a seguito di terapia conservativa, e che quindi solo nel 25% dei casi la malattia progredisce tanto da richiedere un intervento chirurgico.
Questi dati, unitamente ai risultati a distanza degli interventi di TEA e bypass, hanno portato ad una restrizione delle indicazioni dell'approccio chirurgico alla AFS unicamente ai pazienti con ischemia critica (1,8,19,22,31).
La disostruzione della AFS, rispetto al by pass femoro-popliteo, indipendentemente dai risultati a distanza, presenta a nostro avviso, un vantaggio teorico di tipo emodinamico: con la TEA infatti si ha un maggior rispetto della anatomia con la conservazione dei rami collaterali, che vengono anzi riperfusi con potenziamento dei circoli di supplenza.
Questo spiegherebbe perchè una retrombosi della AFS tromboendoarterectomizzata, non causa quasi mai una situazione ischemica acuta così come succede frequentemente nelle occlusioni dei by pass femoro-poplitei; spesso infatti il paziente rimane asintomatico o tuttalpiù ritorna allo stadio sintomatologico preoperatorio (5,28).
L'intervento sulla AFS per sintomatologia lieve, è tornato argomento di attualità nell'ultima decade con la diffusione delle tecniche endoluminali per la ricanalizzazione dei vasi arteriosi
La minima invasività, la bassa incidenza di complicanze, la ripetibilità, i buoni risultati a distanza ottenuti sul distretto iliaco, sembrano far assumere a tali tecniche,
un ruolo interessante anche nel trattamento delle steno-ostruzioni dell'AFS.(11) L'utilizzazione di queste tecniche anche in pazienti con sintomatologia lieve, candidati non ideali a procedure chirurgiche maggiori, sarebbe indicata per eliminare completamente i sintomi o per evitare che una lesione stenosante della AFS, seppure non sintomatica, progredisca verso l'occlusione. Queste metodiche inoltre presentano, similmente alla TEA, il vantaggio di preservare i circoli collaterali.
Da quando Dotter e Judkins introdussero il dilatatore in teflon nel 1964, seguito dal catetere in polivinile fornito di estremità espansibile di Gruntzig nel 1974, l'angioplastica transluminale percutanea (PTA), si è evoluta continuamente per migliorare i risultati ed estendere l'applicabilità e le indicazioni al suo utilizzo.
Inizialmente sono state scelte per il trattamento con la PTA, solo le lesioni stenosanti brevi nei vasi di maggiore diametro. L'avvento di nuovi accorgimenti tecnici, di materiali più sofisticati unitamente alla maggiore manualità acquisita dagli operatori, ha spinto a trattare lesioni stenosanti più lunghe, multiple, e le occlusioni (11,13).
La presenza di insuccessi, soprattutto per lesioni lunghe, calcifiche, eccentriche, o per occlusioni non ricanalizzabili ha orientato la ricerca verso nuovi "strumenti" che rendessero estensibile l'indicazione delle metodiche endovascolari anche a tali lesioni. Sono così state introdotte l'angioplastica laser assistita (LABA) e l'angioplastica
combinata con aterotomi (Kensey [KDAI-ABA], Rotablator, Rotacs, TEC, Simpson). Di fronte ad un sensibile incremento del rateo di successi iniziali ottenuti con queste metodiche combinate, non si è riscontrato però un miglioramento dei risultati di pervietà a distanza (10).
Un ultimo accenno va riservato all'utilizzo degli stent endovascolari, introdotti per ridurre le restenosi dopo PTA insoddisfacente. Anche in questo caso si è dimostrato che il loro uso non riduce la percentuale di restenosi ottenuta con la sola PTA, mettendone in dubbio quindi la reale utilità. Sembrerebbe comunque efficace la loro utilizzazione nel trattamento della occlusione acuta dopo PTA femoro-poplitea (24).
MATERIALI E METODI
Dall'analisi della casistica delle rivascolarizzazioni degli arti inferiori dell'Istituto di III Clinica Chirurgica, diretto dal Prof. Giorgio Di Matteo, è stato preso in considerazione un gruppo di 31 pazienti (30 maschi e 1 femmina), operati tra il 1985 e il 1992, che presentavano lesioni stenotiche od ostruttive dell'arteria femorale superficiale (AFS).
In questi pazienti l'AFS, mono o bilateralmente, era il vaso principalmente colpito. Concomitavano lesioni della arteria femorale profonda (AFP), alcune delle quali non aggredibili chirurgicamente; altre lesioni prossimali o distali sono state giudicate emodinamicamente non significative, eccetto 2 casi nei quali è stata eseguita una dilatazione intraoperatoria con palloncino dell'arteria iliaca omolaterale alla AFS operata. L'età media del gruppo è di 67 anni (range: 44-78 anni) 4 pazienti sono diabetici, 17 forti fumatori. In 2 pazienti è stato riscontrato un deficit di Antitrombina III e in 1 iperfibrinogenemia.
Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad esame Eco-Doppler degli arti inferiori, dei tronchi sopraortici e angiografia degli arti inferiori.
2 pazienti con stenosi carotidea sintomatica sono stati sottoposti a endoarterectomia carotidea prima dell'intervento di rivascolarizzazione periferica. 3 pazienti hanno avuto una rivascolarizzazione bilaterale per un numero complessivo di 34 rivascolarizzazioni primarie.
Gli arti trattati sono stati suddivisi secondo la classificazione di Fontaine: 15 stadio IIb (claudicatio <100m.), 18 stadio III (dolore a riposo), 1 stadio IV (lesioni trofiche al I e II dito). La maggior parte degli arti al III e IV stadio presentavano concomitanti lesioni dell'AFP che non consentivano una correzione di questo vaso con profundoplastica.
Gli interventi eseguiti in questo gruppo sono stati: 15 TEA (13 mono e 1 bilaterale) dell'AFS; 16 bypass femoro-poplitei (12 mono e 2 bilaterali) con anastomosi distale soprarticolare; 3 rivascolarizzazioni endoluminali (3 angioplastiche con palloncino di cui 2 dopo ricanalizzazione con aterotomo Rotacs e/o Simpson).
L'indicazione al tipo di intervento è stata data in relazione alla sintomatologia e all'estensione e alle caratteristiche della lesione.
I 3 pazienti trattati con metodiche endoluminali erano allo stadio IIb, presentavano 2 occlusioni brevi ed 1 stenosi serrata al canale degli adduttori.
Dei 15 arti sottoposti a TEA 9 erano allo stadio IIb e 6 al III. Il tratto di AFS
ricanalizzato oscillava dai 4 ai 30 cm. (media 12 cm.). In 12 casi è stata associata una profundoplastica per la presenza di lesioni ostiali dell'AFP.
I bypass sono stati eseguiti per claudicatio marcata (< 30m. stadio IIb) in 3 casi,
per dolori a riposo in 12 (stadio III) e in un caso per un arto al IV stadio. In 3 casi è stata impiegata la vena safena invertita, in 12 il PTFE e in 1 caso l'arteria mammaria interna bovina per un innesto in T-T per malattia del canale di Hunter. La scelta del materiale protesico (PTFE) rispetto alla vena è stata dettata più dalla equivalenza dei risultati ottenibili con i due materiali con anastomosi soprarticolari.
RISULTATI
Nel gruppo considerato non si è avuta mortalità perioperatoria. In 2 casi si è riscontrato un ritardo di guarigione della ferita inguinale per la presenza di secrezione linfatica. In un paziente in VI giornata postoperatoria si è verificata la lacerazione della protesi in vena, che ha richiesto l'intervento d'urgenza con svuotamento dell'ematoma formatosi e l'esecuzione di un by-pass in PTFE. In un paziente si è verificata una trombosi della protesi in PTFE in XXI giornata postoperatoria che ha richiesto il reintervento e il riconfezionamento del bypass.
Dopo 3 mesi una ricanalizzazione con angioplastica transluminale è stata convertita in bypass femoro-popliteo per l'occlusione dell'AFS con aggravamento della
sintomatologia rispetto al preoperatorio. A 7 mesi dall'intervento si è verificata la trombosi del letto di una TEA ed è stato eseguito un bypass in PTFE. A 12 mesi dall'intervento è stato necessario reintervenire in 5 casi (2 TEA, 3 by-pass, 1 angioplastica) sui 34 complessivi, tutti controllati.
Successivamente 3 pazienti sono deceduti (2 per infarto miocardica e 1 per
patologia neoplastica) ed un paziente è stato perso al controllo. Questi pazienti erano stati operati monolateralmente.
Ad un follow-up di 3 anni il gruppo controllato è di 18 pazienti (21 arti). In 11 arti l'asse femorale è pervio (10 casi di pervietà primaria) e i pazienti sono asintomatici; in uno di questi è stato necessario eseguire un by-pass aortobifemorale per la progressione prossimale della malattia. In 4 casi di TEA è ricomparsa una sintomatologia minore per entità di quella preoperatoria ed i pazienti sono in trattamento farmacologico. I reinterventi sono stati 3 conversioni di TEA in by-pass femoro-popliteo; le amputazioni resesi necessarie sono state 6 (2 TEA, 4 by-pass).
DISCUSSIONE
Le indicazioni alla rivascolarizzazione dell'AFS per ischemia critica sono ormai ben determinate e l'eventuale discussione è limitata al tipo di intervento ottimale. Seppure la tendenza attuale sia quella di preferire i bypass femoro-poplitei non è escluso che tale atteggiamento debba essere rivisto, rivalutando il ruolo della TEA e prendendo in considerazione le metodiche endovascolari.
Nei pazienti con sintomatologia lieve (II stadio) o assente, l'opportunità di trattare le lesioni dell'AFS è ancora argomento di dibattito. Cox in un lavoro del 1993 (8) riporta i risultati di un follow-up di 520 arti inferiori in 337 pazienti trattati non- operativamente. Questi pazienti, che presentavano una lesione unica stenosante dell'AFS con un quadro sintomatologico lieve sono stati seguiti per un intervallo medio di 86 mesi. Durante tale periodo, solo 45 arti in 42 pazienti sono andati incontro ad un peggioramento della sintomatologia che ha richiesto un intervento (39 bypass, 6 trattamenti endovascolari). A 5 e a 10 anni è stato necessario eseguire l'intervento rispettivamente nell'11% e nel 14% dei casi. Le conclusioni di questo studio sottolineano la validità di un approccio non chirurgico a pazienti con lesioni steno-ostruttive della AFS con sintomatologia non gravemente invalidante.
Gli studi di Boyd (4) ed Imparato (16) riportano conclusioni simili.
Un atteggiamento più aggressivo è stato seguito da alcuni Autori che hanno eseguito la PTA della AFS. El Bayar (13), Hewes (14) e Capek (6), hanno ottenuto risultati di pervietà a distanza, simili a quelli ottenuti con i bypass femoro-poplitei in vena, rispettivamente del 78% a 2 anni, del 61% a 3 anni e del 58% a 5 anni.
Allo scopo di definire il trattamento ottimale Creasy (9) ha comparato i risultati ottenuti con terapia conservativa e PTA. In questo studio ha notato che i pazienti trattati con PTA, seppur ottengano migliori risultati immediati di tipo emodinamico (incremento dell'ABPI), presentano però risultati sintomatologici a distanza inferiori a coloro che hanno svolto una terapia medica e fisica riabilitativa. Va comunque rilevato che il paziente non sempre può accettare di buon grado la lunghezza del periodo di tempo che richiede la terapia riabilitativa per l'attenuazione dei sintomi.
Nella nostra esperienza, abbiamo constatato che un atteggiamento chirurgico aggressivo negli stadi precoci non ha portato a risultati a lungo termine più vantaggiosi delle metodiche endovascolari o della terapia medica e riabilitativa e negli ultimi anni abbiamo adottato un atteggiamento conservativo.
Va inoltre considerato che l'ostruzione dei bypass ha comportato un aggravamento della sintomatologia maggiore rispetto al fallimento delle TEA.
CONCLUSIONI
Se per le lesioni stenosanti isolate della AFS asintomatiche o lievemente sintomatiche sembra, dalla revisione della Letteratura, essere indicato un atteggiamento non interventistico, le tecniche endoluminali a tutt'oggi mantengono un ruolo competitivo nei confronti dell'approccio conservativo. Il loro impiego va comunque limitato a quei casi in cui siano prevedibili, per motivi clinici ed anamnestici (diabete, fumo, ecc.) la mancanza di miglioramento della sintomatologia o una progressione rapida della malattia aterosclerotica.
Un indicazione valida rimane, a nostro avviso, l'applicazione delle metodiche endovascolari in lesioni lievi della AFS contemporaneamente a procedure di rivascolarizzazione prossimale per migliorare il run-off, indipendentemente dal beneficio sintomatologico ottenibile.
Riteniamo inoltre che la TEA o il bypass, rimanendo le metodiche di scelta nel trattamento dell'ischemia critica dell'arto inferiore, non abbiano più un ruolo significativo nei pazienti al II stadio.
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